Con la risoluzione n. 94/E del 2013, l’Agenzia delle entrate analizza la disciplina IVA applicabile alle cessioni di beni ceduti dopo essere stati trasportati in uno Stato non comunitario. Più in particolare, il caso esaminato riguarda beni precedentemente inviati da un soggetto nazionale a partire dal territorio italiano in un deposito ubicato in uno Stato non comunitario gestito dal soggetto stesso e poi ceduti da quest’ultimo ai propri clienti in detto Stato.
Nella fattispecie brevemente sintetizzata, è da notare come il trasferimento della proprietà si perfezionerà dopo che i beni sono stati esportati, e precisamente all’atto del prelievo per la consegna al cliente extra-UE.
L’istante richiede pertanto se all’atto della consegna di tali beni al cliente extra-UE:
- tali cessioni possano essere fatturate come non imponibili ad IVA ex art. 8 del D.P.R. n. 633/1972
- e, in quanto tali, possano rilevare positivamente in sede di determinazione dello «status» esportatore abituale e del «plafond» a tali fini spendibile.
In linea di principio, stando alla normativa nazionale, nella fattispecie esaminata si resterebbe al di fuori della non imponibilità ex art. 8 del D.P.R. n. 633/1972, in quanto l’effetto traslativo della proprietà non è contestuale all’invio dei beni al di fuori del territorio comunitario, ma si verifica successivamente con il prelievo operato dal depositario, quindi quando i beni si trovano all’estero.
Infatti, ai sensi dell’art.8, primo comma, lett. a, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, affinché una cessione possa configurarsi come una cessione all’esportazione non imponibile, è necessaria la coesistenza di due elementi:
- il trasferimento della proprietà dei beni
- il trasporto o la spedizione dei beni fuori del territorio comunitario «a cura o a nome del cedente».
La successiva cessione dei beni, precedentemente esportati senza vendita, non è qualificabile come operazione non imponibile ex art. 8, ma come operazione fuori campo Iva per mancanza del presupposto territoriale (ai sensi all’art. 7-bis, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972) con l’importante conseguenza che tale l’operazione non potrà essere inclusa tra quelle che concorrono alla formazione del plafond.
Utile ricordare che con la Risoluzione n. 58/E del 2005 l’Agenzia delle Entrate ha escluso il trattamento di non imponibilità in mancanza di un contratto di consignment stock, facendo riferimento proprio al caso in cui l’operatore nazionale invii merci verso un suo deposito situato in un Paese terzo per la successiva rivendita. In tal caso all’atto dell’esportazione delle merci non si verifica alcuna cessione a titolo oneroso e la rivendita effettuata nel paese terzo non rileverà agli effetti dell’IVA ai sensi dell’art. 7, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972» (ora art. 7-bis, comma 1, dello stesso decreto), in quanto i beni si trovano all’estero.
Ora, con la risoluzione in commento, l’Amministrazione Finanziaria ha in parte rivisto l’impostazione più restrittiva emergente dalla risoluzione n. 58/E/2005, ritenendo che la fattispecie “pur non essendo riconducibile allo schema del contratto di consignment stock, appaia, sul piano degli effetti, molto simile a quest’ultima fattispecie. Del resto, (…) l’invio dei propri beni negli USA in regime franco valuta per essere successivamente ceduti al cliente statunitense, avviene in virtù dell’impegno contrattualmente vincolante assunto ab origine dalle stesse parti. Le merci, ancorché stoccate in un deposito di proprietà della controllata statunitense, di cui l’interpellante ha la disponibilità in virtù del contratto di locazione appositamente stipulato, appaiono vincolate, sin dall’inizio, all’esclusivo trasferimento in proprietà del cliente estero in relazione alle sue esigenze di approvvigionamento”.
Il parere dell’Agenzia appare assai interessante perché ora anche nel caso di immissione dei beni in un proprio deposito ubicato in uno Stato non comunitario in modo da garantire la tempestiva esecuzione delle esigenze di approvvigionamento del cliente extra-UE, la successiva cessione delle merci (che si concretizzerà all’atto del prelievo) potrà essere considerata come cessione all’esportazione e non già come cessione da considerarsi avvenuta al di fuori del territorio italiano.
A tal fine sarà necessario che la società esportatrice dimostri che l’operazione, fin dalla sua origine, e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce al solo cliente estero in relazione alle sue esigenze di approvvigionamento.
Naturalmente, il Plafond di cui all’art. 8, secondo comma, dello stesso decreto, si andrà a costituire solo nel momento e nella misura in cui le stesse risultino prelevate dall’acquirente e debitamente fatturate dal fornitore.
Nella risoluzione si ricorda altresì, a supporto della soluzione accolta, la giurisprudenza della Corte di cassazione n. 23588 del 20 dicembre 2012, secondo cui “ciò che risulta essenziale (…) al fine di evitare iniziative fraudolente, è la prova (il cui onere grava sul contribuente) che l’operazione, fin dalla sua origine, e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero”.
Natale Galimi