La direttiva 90/435/Cee, nota come direttiva madre-figlia, poi rifusa nella direttiva 2011/96/Ue, disciplina la tassazione degli utili distribuiti nei casi in cui, all’interno di un gruppo societario, società madre e società figlia, cioè società avvinte da legami partecipativi, appartengano a differenti Stati membri dell’Unione Europea, con l’obiettivo di eliminare la possibilità di doppia imposizione degli utili distribuiti in forma di dividendi dalle società figlie, stabilite in uno Stato membro, alle corrispondenti società madri, stabilite in un altro Stato membro, dovuta al simultaneo intervento di regimi tributari di due Stati differenti.
La direttiva madre-figlia risponde all’esigenza, direttamente connessa al principio fondante dell’Unione Europea di garantire la libera circolazione dei capitali all’interno del mercato comune, di non ostacolare la formazione di gruppi societari transfrontalieri, introducendo disposizioni fiscali improntate alla massima neutralità fiscale.
Requisiti di applicazione della direttiva madre-figlia
In via generale, ed in estrema sintesi, la direttiva madre-figlia richiede il soddisfacimento di alcuni requisiti. Innanzitutto:
- le società devono avere una veste societaria tra quelle specificate nell’elenco allegato alla direttiva medesima
- devono essere assoggettate, senza possibilità di opzione ed esenzione, a una delle imposte elencate nel medesimo allegato
- devono essere considerate, secondo le disposizioni fiscali di uno Stato membro, come ivi aventi il domicilio fiscale e, ai sensi della convenzione contro le doppie imposizioni conclusa con uno Stato terzo, come non aventi tale domicilio fuori dell’Unione Europea.
Inoltre, si considera società madre la società insediata in uno degli Stati membri dell’UE che detenga una partecipazione minima, attualmente pari al 10%, nel capitale (o nei diritti di voto) di una società di un altro Stato membro. Gli ordinamenti fiscali degli Stati membri possono stabilire anche un ulteriore requisito di carattere temporale, ossia la facoltà di non applicare il beneficio dell’esenzione accordato agli utili nell’ambito della madre-figlia qualora la partecipazione non risulti detenuta ininterrottamente da almeno due anni (l’Italia prevede un holding period di un anno).
In base alla direttiva lo Stato della società madre:
- si astiene dal sottoporre ad imposizione gli utili distribuiti dalla società figlia, oppure
- sottopone ad imposizione gli utili, autorizzando però la società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta subita dalla società figlia nel proprio Stato di insediamento nei limiti dell’imposta nazionale corrispondente.
Il contenuto dell’emendamento alla direttiva madre-figlia
L’emendamento alla direttiva, il quale dovrà essere recepito dagli Stati membri entro il 31 dicembre 2015, circoscrive l’obbligo dello Stato della società madre di astenersi dall’imposizione degli utili distribuiti “nella misura in cui essi non sono deducibili per la società figlia” e, correlativamente, prevede il dovere di sottoporre “tali utili ad imposizione nella misura in cui essi sono deducibili per la società figlia”.
L’intervento normativo si prefigge lo scopo di contrastare la realizzazione di operazioni di arbitraggio fiscale capaci di generare situazioni di doppia non imposizione, in virtù dello sfruttamento indebito di asimmetrie impositive esistenti tra i diversi ordinamenti nazionali. In particolare, tali schemi abusivi si basano frequentemente sull’utilizzo di strumenti finanziari ibridi.
Per strumento finanziario ibrido (cd. hybrid financial instrument) si intende uno strumento finanziario il quale è classificato come strumento di debito dall’ordinamento fiscale di uno Stato (Stato A), rendendo dunque il pagamento ad esso associato deducibile secondo la normativa fiscale di tale Paese, mentre lo stesso strumento risulta qualificato dall’ordinamento fiscale di un altro Stato (Stato B) come apporto di capitale, rendendo così l’utile ad esso associato fiscalmente esente.
Le ragioni dell’intervento del legislatore europeo
La modifica legislativa si inserisce nel più ampio percorso normativo volto allo studio dei possibili interventi di contrasto a fenomeni di doppia non imposizione, doppia esenzione o, come nella situazione specifica della nuova previsione, a meccanismi di deduzione-esenzione, dovuti alla mancata armonizzazione dei diversi ordinamenti fiscali.
In particolare, l’intervento del luglio 2014 si innesta nel solco delineato dalla raccomandazione della Commissione 2012/772/Ue in merito alla necessità di rafforzare la lotta all’elusione e all’evasione fiscale, con particolare attenzione alla possibile utilizzazione abusiva di strumenti finanziari ibridi. Tale raccomandazione prospettava l’introduzione nell’ordinamento comunitario e, di riflesso, in quello dei singoli Stati membri, di una clausola generale anti-abusiva, reputata maggiormente efficace rispetto all’applicazione simultanea di disposizioni normative slegate all’interno dei singoli ordinamenti fiscali.
Nella medesima direzione risulta peraltro orientato anche il piano d’azione BEPS (“Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting”) portato avanti dall’OCSE negli ultimi anni, il quale si prefigge l’obiettivo di neutralizzare fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva. In questo contesto, il 16 settembre scorso, l’OCSE ha pubblicato le prime raccomandazioni per un approccio internazionale coordinato di lotta all’evasione fiscale delle imprese multinazionali, tra cui quelle relative all’Action Plan n. 2 dal titolo “Neutralising the effects of hybrid mismatch arrangements”.
Preme infine sottolineare che, per quanto più specificatamente concerne l’ordinamento fiscale italiano, una disposizione antielusiva sostanzialmente simile è attualmente già rinvenibile all’articolo 44 comma 2 del d.P.R. n. 917/1986 (Testo unico delle imposte sui redditi, Tuir), ove il Legislatore, dopo aver stabilito l’equazione tra azioni e titoli e strumenti finanziari la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultanti della società emittente, stabilisce che tale assimilabilità è valida “a condizione che la relativa remunerazione sia totalmente indeducibile nella determinazione del reddito nello Stato estero di residenza del soggetto emittente”.
Giovanna Costa
Dottore commercialista, membro della faculty NIBI e docente del Corso Executive sulla Fiscalità Internazionale