Il certificato di origine preferenziale è emesso dalla dogana di provenienza su richiesta dell’esportatore, il quale presenta l’istanza allegando tutti i documenti che giustificano il trattamento preferenziale delle merci. Per ottenere tale certificato, la merce deve soddisfare dei precisi requisiti:
- per quanto concerne gli EUR 1, sono previsti dagli accordi commerciali
- per quanto riguarda i Form A, sono stabiliti unilateralmente dall’Unione Europea nel Reg Cee 2454/1993.
Le autorità doganali europee, qualora sorgano dubbi sull’autenticità del certificato di origine preferenziale, hanno due strumenti per verificarne la validità.
In primis possono effettuare dei controlli a posteriori, richiedendo alle autorità del paese di provenienza di attestare la veridicità dei certificati. Le autorità del paese terzo possono effettuare dei controlli formali, per attestare l’autenticità del certificato, o sostanziali,mediante attività di verifica presso la sede della società, per accertare che siano stati rispettati i requisiti per l’emissione del certificato di origine preferenziale. Infatti l’esportatore è obbligato a conservare tutta la documentazione inerente le esportazioni per tre anni dalla data dell’operazione. A seguito dei controlli le autorità estere possono confermare il certificato o dichiararne l’invalidità.
Nel caso in cui dette autorità non rispondano entro il termine di sei mesi dalla richiesta e, successivamente, non rispondano entro quattro mesi al successivo sollecito inoltrato dalle autorità doganali europee, i certificati si intendono non confermati e pertanto si procede con il recupero dei dazi non riscossi all’atto dell’importazione.
Nei casi più complessi, invece, la Commissione Europea, in accordo con le autorità estere, può inviare i funzionari del proprio organismo per la lotta antifrode (OLAF) presso il paese beneficiario del trattamento preferenziale, per effettuare, insieme ai funzionari del paese stesso, le opportune attività di verifica nei confronti delle società esportatrici che hanno richiesto l’emissione dei certificati di origine.
Se a seguito di tale verifica, l’OLAF accerta che i certificati di origine precedentemente rilasciati sono falsi o irregolari, la Commissione Europea inoltra il rapporto conclusivo di indagine (che, ai sensi dell’art. 9 Reg. Cee 1073/99, ha valore di elemento di prova nei procedimenti amministrativi) alle autorità doganali europee interessate, invitandole ad agire nei confronti dell’importatore per il recupero dei dazi relativi alle merci precedentemente introdotte nel territorio dell’Unione Europea in esenzione di detta imposta.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il soggetto passivo dell’imposta di confine è l’importatore, per cui, se a seguito di controlli, non dovesse essere confermata la validità o la regolarità dei certificati di origine preferenziale, le autorità doganali agirebbero nei suoi confronti per il recupero dell’imposta. Infatti, come è stato più volte ribadito dalla Corte di Giustizia, la buona fede dell’importatore non lo esime dalla sua responsabilità per l’adempimento dell’obbligazione doganale essendo egli il dichiarante della merce importata quand’anche scortata da certificati inesatti o falsificati a sua insaputa (Sentenza della Corte di Giustizia nel procedimento C 97/95 Pascoal & Filhos punto 43).
La Corte di Giustizia ha altresì asserito successivamente che la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Sentenza procedimento C 293/04 Beemsterboer punto 43).
Pertanto è importante che l’operatore comunitario accerti l’affidabilità e l’onestà del suo fornitore non comunitario per evitare future contestazioni da parte delle autorità doganali per le attività fraudolente compiute dal proprio partner commerciale. L’importatore potrebbe altresì tutelarsi stipulando un contratto in cui il fornitore si assume la responsabilità per i certificati di origine preferenziale che saranno emessi dietro sua richiesta.
Come già evidenziato, in caso di contestazione, la sola buona fede non può essere invocata dall’importatore per evitare di versare i maggiori dazi accertati. Infatti, ai sensi dell’art. 220 c. 2 lett. b del Reg. Cee 2913/1992, non deve essere richiesta all’operatore l’imposta quando la stessa non sia stata contabilizzata “per un errore dell’Autorità doganale (sia estera che europea) che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa vigente”, salvo che tale errore si basi su una situazione fattuale inesatta riportata dall’esportatore. In quest’ultimo caso, per evitare la contabilizzazione dell’imposta, l’importatore deve dimostrare che le autorità doganali sapevano, o ragionevolmente avrebbero dovuto sapere, del comportamento fraudolento dell’esportatore.
Nella prassi la suddetta esimente è di difficile applicazione poiché, generalmente, l’errore dell’autorità doganale è causata da una frode del soggetto esportatore e, per l’importatore è estremamente arduo dimostrare che le autorità del paese di provenienza fossero a conoscenza della pratica fraudolenta dell’operatore commerciale.
Sotto il profilo sanzionatorio, invece, l’importatore non è responsabileper il comportamento scorretto del partner commerciale. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 5 c.1 del D.Lgs 472/97, “nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”. Pertanto l’Amministrazione Finanziaria può comminare la sanzione amministrativa esclusivamente quando ravvisi colpevolezza nella condotta dell’agente, che può ritenersi sussistente ove lo stesso abbia violato il precetto pur avendo avuto l’astratta possibilità di osservarlo. Quindi, qualora sia invalidato un certificato di origine preferenziale, l’autorità doganale potrà sanzionare l’importatore esclusivamente quando ritenga che lo stesso sia complice dell’esportatore o che, quanto meno, sia a conoscenza delle sue pratiche illecite.
Bisogna altresì evidenziare che non esiste una norma specifica che sanzioni la difforme indicazione dell’origine preferenziale. Alcuni uffici periferici dell’Agenzia delle Dogane, che hanno richiesto il pagamento dei maggiori dazi accertati a seguito di attività di verifica dell’OLAF, hanno emesso le sanzioni applicando l’art. 303 del TULD (che punisce la difforme indicazione della quantità, qualità e valore nella dichiarazione doganale), affermando che tale articolo punisca la differente indicazione di ogni elemento dell’accertamento. Gli atti sanzionatori, impugnati presso le Commissioni Tributarie, sono stati annullati sia perché la norma non puniva l’errata indicazione dell’origine, sia perché non veniva ravvisata la colpevolezza nella condotta dell’importatore; invero gran parte degli atti impositivi riguardanti i diritti sono stati considerati legittimi dall’autorità giudiziaria, in quanto, pur riconoscendo la buona fede dell’importatore, l’irregolarità dei certificati derivava da un’attività fraudolenta dell’esportatore.
Pier Paolo Ghetti e Enrico Calcagnile