I Paesi coinvolti rappresentano circa il 30% del PIL e della popolazione mondiale e oltre un quarto del commercio internazionale di beni. L’Accordo diventerà effettivo una volta ratificato da almeno 6 paesi ASEAN (Brunei, Cambogia, Indonesia, Filippine, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Singapore, Laos e Vietnam) e 3 paesi non-ASEAN, un processo che sarà completato probabilmente nel 2022.
L’India ha abbandonato i negoziati alla fine del 2019 per timore che, in seguito alla progressiva eliminazione dei dazi, il mercato indiano potesse essere invaso da prodotti concorrenti importati, con conseguenze negative sulle imprese domestiche.
L’Accordo non comporta vistosi benefici in termini di riduzione delle barriere tariffarie tra i paesi membri, che nella maggior parte dei casi presentano già accordi commerciali bilaterali in essere. All’entrata in vigore del RCEP si osserverà l’abbattimento dei dazi su circa il 65% dei prodotti scambiati, che salirà gradualmente fino a oltre il 90% in un periodo di 20 anni.
La semplificazione delle procedure doganali renderà più snello lo svolgimento delle pratiche amministrative e permetterà un più rapido sdoganamento delle merci, prevedendo anche tempistiche ben definite a seconda della tipologia del bene.
Affinché un bene ottenga la denominazione made in RCEP, è sufficiente che almeno il 40% del proprio valore aggiunto sia prodotto all’interno del gruppo dei paesi membri. Questa semplificazione normativa rappresenta un evidente stimolo a una maggiore integrazione delle catene produttive regionali.
È inoltre attesa l’apertura di almeno il 65% di tutti i settori, inclusi i servizi professionali, le telecomunicazioni, i servizi finanziari, la distribuzione, la logistica e l’IT, con un aumento delle soglie relative alle quote di partecipazione straniere.
RCEP porta sotto un unico scenario normativo le relazioni commerciali tra i 15 paesi membri e ha il merito di essere il primo accordo commerciale che vede la presenza contemporanea di Cina, Giappone e Corea del Sud.
Nonostante le tensioni diplomatiche, l’interscambio commerciale tra queste tre economie presenta valori molto rilevanti – circa 300 miliardi di dollari quello tra Cina e Giappone nel 2019, oltre 240 tra Cina e Corea del Sud, più di 75 miliardi tra Giappone e Corea – pur in mancanza di accordi bilaterali.
Secondo uno studio di Petri e Plummer (2020) sui potenziali impatti economici del RCEP, pubblicato dal Peterson Institute for International Economics (PIIE), oltre il 75% dell’incremento dell’interscambio tra i paesi firmatari dell’Accordo – stimato tra 428 e 445 miliardi di dollari entro il 2030 a seconda del protrarsi o meno delle tensioni commerciali tra USA e Cina – è imputabile proprio alla crescita degli scambi tra Cina, Giappone e Corea del Sud.
Esportazioni italiane
A partire dal 2000 l’Italia ha incrementato rapidamente il valore delle proprie vendite di beni verso i paesi RCEP, passate da poco meno di 15 a 38,7 miliardi di euro nel 2019 o, in termini relativi, dal 6% all’8% dell’export complessivo italiano, in virtù di tassi di crescita generalmente superiori rispetto a quelli registrati verso i restanti mercati (5,2% vs 3,1%).
Nel 2020, a seguito della crisi pandemica, le esportazioni verso le economie RCEP hanno mostrato una flessione inferiore rispetto alle altre geografie, sostenute in particolare dall’andamento pressoché stabile in Cina (-0,6%), che da sola rappresenta oltre un terzo (circa 13 miliardi di euro) delle vendite italiane complessive verso i 15 paesi. Oltre alla Cina, i principali mercati di sbocco sono Giappone, Corea del Sud, Australia e Singapore.
In termini di composizione settoriale, prevalgono i settori di punta dell’industria manifatturiera italiana, in primis la Meccanica strumentale, seguita da Chimica, Tessile e abbigliamento, Mezzi di trasporto e Alimentari e bevande, anche se con interessanti differenze tra i diversi paesi. Ad esempio, l’export di quest’ultimo settore raggiunge ben il 19% del totale in Giappone, mentre si ferma al 2% in Cina; oppure, quello di prodotti del tessile e abbigliamento rappresenta un quinto dei beni venduti in Corea del Sud, ma in Malaysia non supera il 3%.
Oltre ai possibili benefici in termini di export, le imprese italiane con consolidate catene di approvvigionamento intra-asiatiche potrebbero giovare della riduzione del prezzo dei beni intermedi legata alla maggiore efficienza delle catene del valore dei paesi RCEP.
L’Accordo potrebbe però comportare anche una riduzione dell’export italiano nell’area, a seguito della riduzione dei costi di transazione e della maggiore integrazione delle supply chain dei paesi firmatari. Questo effetto, noto come import substitution, potrebbe verificarsi solamente a favore di quei paesi RCEP che si configurano come veri competitor dell’Italia, ossia che presentano un certo grado di sovrapposizione nei principali settori di export.
Una seconda determinante del rischio di import substitution è rappresentata dall’entità delle barriere di tipo tariffario incontrate dai prodotti italiani in ingresso nei diversi paesi RCEP, che talvolta possono far aumentare il prezzo dei beni in maniera sensibile. Questo aspetto risulta in parte mitigato dall’esistenza di accordi commerciali bilaterali siglati tra l’Unione europea e alcune importanti economie del gruppo dei 15 – in ordine cronologico, Corea del Sud (entrato in vigore nel 2011), Singapore (2019), Giappone (2019) e Vietnam (2020) – e che prevedono il quasi completo abbattimento dei dazi in un periodo distribuito tra l’entrata in vigore e un massimo di 10 anni.
Fonte: Esportare la dolce vita 2021