La Commissione Europea ha intrapreso negli ultimi anni una serie di iniziative miranti a creare un diritto europeo dei contratti che permetta di superare i problemi derivanti dalle differenze delle leggi nazionali in materia. In particolare, la Commissione ha:
- incaricato nel 2008, una rete accademica di elaborare il "Draft Common Frame of Reference" (DCFR) una specie di codice europeo delle obbligazioni, di notevole interesse teorico, ma poco adatto alle esigenze degli operatori
- chiesto nel 2010, a un gruppo di lavoro, di predisporre un testo più semplice limitato alle norme sui contratti in generale e al contratto di vendita (reso noto il 3 maggio 2011 con il titolo "Feasibility Study for a Future Instrument in Europea Contract Law")
- pubblicato nel frattempo un libro verde sulle opzioni possibili relativamente a un diritto contrattuale europeo per i consumatori e le imprese, che lanciava una consultazione pubblica sulle possibili soluzioni alternative
- proposto l'11 ottobre 2011 un regolamento del Consiglio e del Parlamento Europeo su un diritto comune della vendita, basato essenzialmente sul Feasibility Study elaborato dagli esperti.
Finalità e utilità del diritto comune europeo sulla vendita
La Commissione ritiene che la mancanza di norme uniformi sui contratti, e in particolare sulla vendita, costituisca un ostacolo al commercio intracomunitario in quanto molti operatori sarebbero portati a limitare la loro attività al loro mercato nazionale, a causa delle differenze legislative tra le leggi dei vari Stati membri. Lo scopo che si propone la Commissione è quindi di facilitare il commercio intracomunitario mettendo a disposizione degli operatori una normativa uniforme che le parti possono utilizzare per i contratti di vendita con controparti di un altro paese dell'Unione.
Si tratta di uno strumento opzionale - applicabile solo se scelto dalle parti e che quindi lascia sussistere le leggi nazionali in materia - che, secondo la Commissione, può favorire una maggiore integrazione dei mercati. Tale assunto non sembra, in realtà, molto convincente:
- anzitutto va considerato che per i contratti di vendita tra imprese già esiste una normativa uniforme costituita dalla convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale (adottata da tutti i paesi europei con la sola eccezione del Regno Unito e del Portogallo)
- ma, soprattutto, non sono gli ostacoli dovuti alle differenze legislative che impediscono alle imprese di entrare in altri mercati (l'imprenditore che non cerca clienti in altri paesi europei non si farà certo convincere a farlo il giorno in cui disporrà di una normativa uniforme europea sulla vendita).
Ciò non vuol dire che una normativa uniforme per il mercato europeo, utilizzabile come strumento opzionale, sia inutile. Poter disporre di norme applicabili ai rapporti con controparti di qualsiasi Stato dell'Unione comporterebbe un'indubbia semplificazione, a condizione - ovviamente - che i suoi contenuti corrispondano alle esigenze degli operatori, il che - come vedremo in seguito - non si verifica nel nostro caso.
Il progetto di regolamento prevede che il diritto comune europeo della vendita venga a far parte della legislazione di ciascun Stato membro come normativa che le parti possono rendere applicabile al loro contratto in luogo delle leggi dei rispettivi Stati. Tale possibilità verrebbe però riconosciuta soltanto per i contratti tra imprese e consumatori e per i contratti tra imprese, solo se una di esse è una piccola e media impresa (PMI) e cioè un'impresa con meno di 250 dipendenti e meno di 50 milioni di fatturato.
I contenuti della nuova normativa
La legge europea sulla vendita, composta da ben 186 articoli, disciplina il contratto di vendita insieme alla maggior parte delle problematiche generali dei contratti come ad esempio, responsabilità precontrattuale, vizi del consenso, clausole abusive, prescrizione, ecc. Essa è stata concepita per la disciplina dei rapporti tra imprese e consumatori e tra imprese (piccole e medie), attraverso la previsione di una serie di norme applicabili in via generale, insieme a norme più protettive applicabili solo ai rapporti con i consumatori.
Il risultato di tale commistione è che le norme applicabili ai rapporti tra imprese (B2B) sono molto più sbilanciate in favore della parte considerata più debole di quanto non lo siano normalmente normative predisposte per disciplinare i rapporti B2B, come ad esempio la convenzione di Vienna sulla vendita internazionale.
Così, ad esempio, si prevede in via generale (art. 23.1) che il venditore debba comunicare al compratore, prima della conclusione del contratto, tutte le informazioni relative alle caratteristiche principali di cui dispone (o di cui si può presumere che disponga), che sarebbe contrario a buona fede non far conoscere alla controparte.
Ora, una norma di questo tipo (che va molto oltre il generale principio di buona fede nelle trattative precontrattuali) rischia di allargare eccessivamente le responsabilità del venditore, dando al compratore la possibilità di contestazioni pretestuose e, comunque, aprendo spazi per contestazioni poco compatibili con le esigenze di certezza nei rapporti commerciali che dovrebbero prevalere nei rapporti tra imprenditori. Si prevede poi che la parte che non rispetti l'obbligo di informazione debba rispondere di qualsiasi pregiudizio causato all'altra parte in conseguenza di tale violazione.
Inoltre, per quanto riguarda eventuali clausole non negoziate individualmente, proposte da una parte, le stesse non possono essere opposte all'altra parte se questa non le conosceva o se la parte preponente non ha preso le precauzioni ragionevolmente necessarie per portarle a conoscenza dell'altra (art. 70.1). In questo modo si introduce un principio simile all'art. 1341 del nostro codice civile in materia di clausole onerose (che però si applica a tutte le clausole non espressamente negoziate!) che permette alla controparte di mettere in discussione la maggior parte delle clausole contenute in condizioni generali di vendita (o di acquisto).
Infine, l'art. 86 prevede che debbano considerarsi abusive tutte le clausole che non siano state negoziate individualmente e che si discostino manifestamente dalle buone pratiche commerciali, contrariamente al principio di buona fede e correttezza.
Ora, tutto ciò fa sì che la nuova normativa, pur nell'intento lodevole di proteggere la parte più debole, abbia in definitiva l'effetto di permettere a chi intenda sottrarsi ai propri obblighi di invocare una serie di motivi pretestuosi, minando quella certezza del diritto che costituisce un presupposto essenziale nella gestione dei contratti commerciali.
Conclusioni
La proposta di legge europea sulla vendita potrebbe costituire uno strumento utile per disciplinare in modo uniforme, a livello europeo, le vendite ai consumatori (B2C), offrendo alle imprese che intendono vendere a consumatori di un altro Stato membro una normativa che eviti loro di confrontarsi di volta in volta con normative diverse a seconda del paese della controparte.
Per quanto riguarda invece i rapporti tra imprese si tratta di una normativa sconsigliabile, principalmente per le ragioni seguenti.
Esiste già una normativa uniforme (la convenzione di Vienna sulla vendita internazionale) che ha dato buona prova di sé e che ha l'ulteriore vantaggio di essere utilizzata anche nei rapporti con Stati terzi. In tali condizioni non vi è alcun bisogno di una normativa ulteriore per i rapporti intracomunitari.
Avendo voluto realizzare una normativa che potesse applicarsi tanto alle vendite tra imprese quanto a quelle tra imprese e consumatori, è stato dato uno spazio eccessivo a norme che, nell'intento di proteggere una parte considerata a torto o a ragione più debole, non rispondono alle esigenze di prevedibilità e certezza del diritto richieste per i rapporti commerciali.
L'operatore che desideri estendere la propria azione ai mercati degli altri paesi dell'Unione non sarà certo avvantaggiato da una normativa che consente alle sue controparti straniere di far valere una serie di eccezioni e contestazioni non previste dalle norme attuali, ed in particolare dalla legge uniforme sulla vendita internazionale introdotta dalla convenzione di Vienna del 1980.
E' quindi auspicabile che il progetto venga limitato ai rapporti con i consumatori, per i quali è più forte l'esigenza di una normativa uniforme, considerando le differenze esistenti tra le norme nazionali in materia.
Prof. Avv. Fabio Bortolotti