Settori come la ricettività alberghiera, i trasporti, la logistica, e molti altri ancora, non potranno più essere quelli di prima.
La globalizzazione, che aveva già manifestato i primi segni di debolezza (Brexit e guerra dei dazi Cina Stati Uniti), ha subito in questi ultimi mesi uno scossone fatale ed è arduo adesso individuare trend geopolitici che possano indirizzarci verso nuove mappature dei mercati.
Ragionevolmente, potrebbe esserci un ritorno alla regionalizzazione, ovvero al consolidamento di quei mercati storicamente più vicini (cito la Germania per la meccanica o l'agro-alimentare e l'Europa in generale), in quanto le sofferenze della logistica internazionale potrebbero portare a una concentrazione e a una localizzazione dei mercati, e quindi a una rivalutazione delle forniture italiane anche da un punto di vista economico. Ma è troppo presto per azzardare ipotesi…
Una cosa è sicura: il mercato non potrà essere solo quello domestico e l'export dovrà trainare la ripresa della nostra economia. In Italia, nonostante le potenzialità della nostra produzione e della nostra capacità di trasformazione di materie prime e semilavorati, vendono all'estero pressappoco 200 mila aziende su più di 3 milioni (al netto delle ditte individuali), delle quali soltanto 2 mila circa, le più grandi, contribuiscono a quasi la metà del valore delle esportazioni. Dobbiamo fare di più, e di meglio, se è vero che in Europa veniamo dietro non solo a Germania e Francia, ma persino all’Olanda.
Adattamento
Wikipedia definisce l’internazionalizzazione come “Il processo di adattamento di una impresa, un prodotto, un marchio, pensato e progettato per un mercato o un ambiente definito, ad altri mercati o ambienti internazionali, in modo particolare altre nazioni e culture".
Forse è proprio questo processo di adattamento a spaventarci e frenarci. Eppure siamo bravi nelle personalizzazioni dei prodotti, molto più bravi di tedeschi e francesi, più flessibili, più sartoriali.
Dovremo affidarci sempre più al country brand del Made in Italy come elemento di unicità e differenziazione universalmente riconosciuto e rafforzare la capacità di adattamento delle imprese.
Per una piccola impresa abituata a vendere in Italia, aprire gli orizzonti all'estero comporta un vero e proprio salto quantico che deve coinvolgere il management (quando c'è) e soprattutto la proprietà e la diligence aziendale. Potrebbe significare abbandonare il vecchio amato modello di business e iniziare a pensare ad innovare la proposizione del valore aziendale.
Adattare la nostra impresa significherà sempre di più rivolgerci a nuovi segmenti di mercato, tramite nuovi canali e nuove tipologie di relazioni, ma guardandoci dentro, ossia analizzando le nostre risorse chiavi, i processi aziendali cruciali e i partner strategici che ci possano aiutare a formulare una proposta innovativa al passo coi tempi, capace di soddisfare, anzi sorprendere, il cliente estero nelle sue nuove sfide e nei suoi nuovi bisogni.
Ascolto
Riusciremo ad adattare la nostra azienda alle dinamiche internazionali solo se capiamo quanto sia fondamentale avvicinarsi alla storia, alla cultura e alla tradizione dei paesi su cui vogliamo puntare (mi raccomando: non troppi se siamo piccoli), potenziando le nostre attitudini empatiche e la capacità di ascolto, anche digitale, utilizzando tool di business analytics.
Il cliente si deve fidare di noi, il mordi e fuggi non funziona, tanto meno all'estero.
Per presentarci a un nuovo cliente straniero dobbiamo puntare su affidabilità e autorevolezza, affidandoci alle referenze e alle testimonianze dei nostri clienti, possibilmente a visibilità internazionale. Questa sarà la base su cui disegnare una proposta di valore vincente.
Quando pensiamo all'estremo oriente, non dimentichiamoci dell'importanza di concetti confuciani quali mianzi, lian e guanxi – ovvero l'importanza della reputazione personale, delle gerarchie e delle relazioni sociali – valori fondamentali anche per le nuove generazioni.
Stiamo quindi attenti a interagire con i veri decision-maker, abituandoci ad argomentare le nostre posizioni, a volte necessariamente in conflitto con quelle della controparte negoziale, rispettando l'uomo o la donna che stanno dall'altra parte della scrivania. I contratti migliori non sono quelli spuntati al prezzo più alto, ma quelli che avranno un seguito e uno sviluppo coordinato nel tempo
Infine, ora più che mai, domandiamoci perché il nostro cliente dovrebbe comprare da noi, o per quale ragione il distributore dovrebbe importare il nostro prodotto. Chiediamoci cosa ci sia di unico nella nostra proposta che non sia invece rintracciabile sotto casa, commercializzato da aziende locali o anche straniere che da decenni presidiano quel mercato.
Fabrizio Fenu