28 mag 2015 00:00 28 maggio 2015

Contraffazione della lettera “G” e concorrenza sleale

di lettura

La battaglia legale di una nota casa di moda fiorentina contro il suo competitor statunitense, che da oltre 6 anni occupa i tribunali europei e statunitensi, ci consente di evidenziare alcuni concetti base riguardanti la proprietà industriale in un contenzioso transnazionale. 

La lite ha ad oggetto, tra l’altro, accuse di contraffazione di vari marchi contrassegnati con la lettera “G”, oltre ad addebiti di concorrenza sleale consistenti nell’imitazione sistematica, continua e protratta nel tempo delle iniziative del concorrente.

Le ostilità vengono aperte nel 2009 dalla società italiana avanti al Tribunale di Milano che, con una lunga sentenza, non solo ha rigettato le sue domande, ma ha accolto le richieste avversarie dirette a far dichiarare la nullità di tre dei marchi dell’azienda fiorentina registrati a livello italiano e internazionale. 

La Corte di Appello di Milano, in secondo grado, ha invece riconosciuto la sussistenza della concorrenza sleale (tecnicamente definita per imitazione servile, per agganciamento e parassitaria) e, conseguentemente, il diritto di quest’ultima ad essere risarcita in un nuovo e separato giudizio.
Nello specifico, la Corte di Appello di Milano (che, si noti bene, ha confermato le nullità sopra indicate e ha anche confermato la sentenza di primo grado sul punto relativo alla mancata contraffazione dei marchi), pur conscia della linea argomentativa del Tribunale, volta ad individuare nel marchio della casa italiana “una semplice “G” non connotata da un particolare grafismo, né da intrecci o elementi decorativi di sorta”, ha sottolineato come “in tutti casi sottoposti alla sua attenzione, [la società statunitense] ha presentato sul mercato prodotti che richiamavano molto per forma, tonalità, materiale, scelte grafiche e decorative o ancora per la combinazione di questi elementi insieme le scelte stilistiche [della casa di moda italiana] nelle sue collezioni di poco precedenti ai prodotti lanciati [dalla azienda nordamericana]”, e come in tal modo si siano concretizzate le fattispecie di concorrenza sleale sopra indicate e basate sulla “costante imitazione dell’universo creativo [del concorrente]

Scelta, quest’ultima che, pur non essendo definitiva, appare senza dubbio più attenta alle richieste dell’azienda italiana, posizionandosi così in senso opposto alla decisione d’oltralpe di cui si dirà a breve.

Nel 2012, una corte statunitense, lo US District Court for the Southern District ha stabilito a favore dell’azienda nostrana, e per il titoli sopra menzionati, un risarcimento di 4,66 milioni di dollari; somma senza dubbio considerevole anche se inferiore agli USD 120 milioni richiesti dall’azienda italiana.

Come anticipato, più rigido nel sue esame, pare invece essere stato il Tribunal de Grande Instance di Parigi, il quale non solo ha recentemente rigettato la richiesta di Euro 55 milioni di danni avanzata dalla azienda italiana a carico della controparte per violazione dei marchi correttamente registrati in Francia, ma anzi si è vista addebitare a favore di quest’ultima la somma di 30 mila euro a titolo di spese legali del procedimento. Il Tribunal de Grande Instance ha stabilito 

  • che le nette differenze che separano i due marchi impediscono che vi sia un rischio di confusione
  • che la concorrenza sleale e parassitaria non è stata dimostrata 
  • la parziale decadenza di tre marchi della società italiana, internazionali e comunitari. 

Quindi la corte francese ha ritenuto non sussistente la condotta di concorrenza sleale: un giudizio in toto negativo per la griffe fiorentina, che ha visto disattese le proprie aspettative riposte nei giudici parigini.

Conclusione

La vicenda non è ancora conclusa definitivamente, ma è attualmente possibile svolgere alcune considerazioni in tema di marchi e concorrenza sleale che non riguardano solo il settore della moda.

In particolare, emerge che:

  1. il marchio per poter essere efficacemente difeso deve essere registrato nei mercati di interesse (paesi di esportazione o nei quali si intende concedere il marchio in licenza d’uso);
  2. se i marchi sono scarsamente distintivi possono essere dichiaratati nulli oppure, se  validi, si pensi alla sola lettera “G”, bastano lievi modifiche al competitor per differenziarsi ed utilizzare segni simili;
  3. le corti di paesi diversi possono giudicare in maniera completamente diversa casi identici o simili, non sussistendo alcun obbligo di conformarsi a precedenti sentenze rese da giudici stranieri
  4. non esiste un concetto uniforme di concorrenza sleale a livello internazionale

Avv. Andrea Antognini  
                         
Avv. Federico Riganti

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