La sentenza del 13 febbraio 2014 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-466/12, offre un importante spunto per delineare una panoramica delle attuali tendenze, normative e giurisprudenziali, relative all’utilizzo e alla tutela di contenuti protetti da diritti di proprietà intellettuale ed industriale (marchi, nomi a dominio, design, opere di rilevanza artistica e letteraria, ecc.) nella rete.
La presenza in internet dell’azienda comporta, infatti, una serie di valutazioni su questo mezzo di comunicazione con estensione potenzialmente mondiale e la messa in opera di particolari cautele volte a:
- proteggere i diritti di proprietà intellettuale ed industriale dell’azienda
- evitare possibili violazioni dei diritti altrui.
I marchi
Sono numerosi i modi in cui un marchio può essere usato in Internet. Queste forme di utilizzo possono integrare gli estremi della contraffazione soltanto, però, quando tale uso è fatto per scopi economici. Ciò vuol dire che i consumatori, a certe condizioni, possono usare i marchi aziendali di terzi nei social networks con finalità non commerciali, mentre un soggetto concorrente del titolare di tali marchi non può utilizzarli, in modo scorretto, per accaparrarsi la clientela del titolare.
E’ pacifico che non si possa usare il marchio di un concorrente per registrare un nome a dominio ed anche che sia considerata contraffazione l’uso del marchio di un terzo nelle pagine del proprio sito internet, salvo ciò non avvenga per un motivo lecito.
Si considera lecito l’uso del marchio altrui per indicare una componente del proprio prodotto (quando per indicare di che tipo di componente esattamente si tratti è necessario menzionare il marchio che la identifica). La Corte di Giustizia interpreta queste ipotesi in modo restrittivo, privilegiando le legittime aspettative del titolare del marchio (sentenza nella causa C-324/09, L'Oréal SA e a. /eBay International AG e a.).
Altri usi in Internet dai quali si ritiene possa derivare una responsabilità per contraffazione (e per concorrenza sleale) sono:
- l’impiego del marchio altrui in un meta-tag (sono stringhe di dati presenti nel linguaggio HTML utilizzati per fornire informazioni sulle pagine ai motori di ricerca; i meta-tag non forniscono al browser alcun dato di formattazione della pagina, per cui rimangono totalmente invisibili all'utente, ma vengono rilevati dai motori di ricerca ed influiscono sui risultati della ricerca effettuata dall’utente) al fine di far rilevare il sito dai motori di ricerca (si veda la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-657/11, Belgian Electronic Sorting Technology NV / Peelaers e a.)
- l’inserimento del marchio in un link ipertestuale
- la pratica del framing, consistente nel far apparire in un sito una pagina tratta da un altro sito, in cui compaiano i marchi del terzo.
Numerose sentenze si sono poi occupate dell’uso di un marchio altrui nell’ambito di un servizio di keyword advertising (o servizio di posizionamento a pagamento) offerto dai motori di ricerca e tramite il quale l’utente ottiene che, quando un navigatore effettui una ricerca con una data parola chiave, appaia, oltre ai risultati naturali della ricerca, un link c.d. sponsorizzato al sito dell’utente, accompagnato da un suo messaggio pubblicitario (sentenza nelle cause riunite da C236/08 a C238/08, Google France SARL e Google Inc. / Louis Vuitton Malletier SA e a.).
Le cause in materia nascevano dal fatto che soggetti non autorizzati avevano usato marchi altrui in questi servizi in modo che i navigatori che effettuavano ricerche in rete con il marchio venissero indirizzati verso i loro siti. I giudici comunitari, a certe condizioni, hanno ritenuto che per un simile uso del marchio altrui possa configurarsi una responsabilità per contraffazione dell’inserzionista che impiega il marchio di concorrenti.
Diritto d’autore e informazione digitale
Con la recente sentenza nella causa C-466/12 Nils Svensson e al. v. Retrieve Sverige AB, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha avuto modo di pronunciarsi su uno dei più scottanti e controversi temi relativi alla tutela del diritto d’aurore nell’era dell’informazione digitale.
La Corte è stata chiamata a decidere se per il titolare di un sito internet (in questo caso Retrieve Sverige AB) sia lecito inserire dei collegamenti cliccabili che rinviino a contenuti o pagine di altri siti internet di terzi e, in particolare, se tali links costituiscano una violazione del diritto dell’autore (o, in ogni caso del titolare del diritto) di impedire a terzi di comunicare al pubblico i contenuti coperti da tale diritto, senza la previa autorizzazione dell’autore stesso.
La Corte del Lussemburgo era, inoltre, chiamata a stabilire se uno Stato Membro dell’UE possa introdurre una disciplina della materia più restrittiva rispetto a quella prevista dalla direttiva comunitaria 2001/29/CE sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione.
La società svedese Retriever Sverige, titolare dell’omonimo sito internet, inseriva nelle proprie pagine web dei collegamenti cliccabili (ipertestuali) che rinviavano al sito internet del quotidiano Göteborgs-Posten, consentendo agli utenti di Retriever Sverige di accedere ad alcuni articoli pubblicati proprio sulla pagina internet del Göteborgs-Posten.
Tali articoli erano stati pubblicati sul sito internet del Göteborgs-Posten senza che vi fosse la necessità di alcuna iscrizione (gratuita o a pagamento) per poterli leggere e consultare.
Gli autori degli articoli, lamentavano una violazione del proprio diritto d’autore da parte di Retriever Sverige sulla base delle norme internazionali ed europee in materia e, in particolare:
- Art. 8 del WIPO Copyright Treat del 1996 “(…) gli autori di opere letterarie e artistiche hanno il diritto esclusivo di autorizzare ogni comunicazione al pubblico, su filo o via etere, delle loro opere, nonché la messa a disposizione del pubblico delle loro opere, in modo che chiunque possa liberamente accedervi da un luogo o in un momento di sua scelta.”
- Art. 3 della Direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione “Gli Stati membri riconoscono agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente.”
- Art. 20 della Convenzione di Berna del 9 settembre 1886 “The Governments of the countries of the Union reserve the right to enter into special agreements among themselves, in so far as such agreements grant to authors more extensive rights than those granted by the Convention, or contain other provisions not contrary to this Convention. The provisions of existing agreements which satisfy these conditions shall remain applicable.”
La decisione della Corte
Il primo profilo preso in esame dalla Corte è quello relativo alla natura della comunicazione effettuata da Retriever Sverige inserendo sul proprio sito i collegamenti cliccabili verso il sito del Göteborgs-Posten ossia se questa possa considerarsi una “comunicazione al pubblico” nel senso indicato dalla Direttiva 2001/29/CE e dal Trattato WIPO.
La Corte, sul punto, ha ritenuto che debba considerarsi “comunicazione al pubblico” solo quella comunicazione che consenta l’accesso all’opera coperta da diritto d’autore a soggetti diversi da quelli che, prima di tale comunicazione, avevano già accesso alla medesima opera. Solo comunicazione rivolta ad un “nuovo” pubblico rispetto a quello già esistente necessita, quindi, di una specifica autorizzazione dell’autore (e può, da questo, essere vietata).
La comunicazione che consenta ad un pubblico del medesimo tipo di quello a cui l’autore dell’opera già la aveva resa disponibile (ad esempio, gli utenti attuali e potenziali di internet senza necessità di iscrizioni o abbonamenti) non costituisce “comunicazione al pubblico” e, quindi, neppure una violazione del diritto d’autore.
Diverso sarebbe se l’accesso all’opera fosse stato limitato ad un solo pubblico di iscritti o di abbonati (o comunque non fosse stato libero per tutti gli utenti): è il caso di quei siti web che consentono di visualizzare contenuti ed opere presenti su pagine web ad accesso riservato o limitato - e, quindi, eludendo le misure restrittive predisposte dal titolare del sito web – che quindi violano i diritti dell’autore (ad es. giornalista) o del titolare dei diritti di sfruttamento economico dell’opera protetta (ad es. titolare del sito).
La Corte ha infine chiarito che, sebbene le disposizioni della Convenzione di Berna (art. 20) consentano agli Stati di adottare misure che assicurino una maggior protezione dei titolari di diritti sull’opera, i singoli Stati Membri dell’UE non possono adottare tali misure poiché ciò comporterebbe una inaccettabile disomogeneità, in materia di tutela del diritto d’autore, all’interno del territorio dell’Unione.
Conclusioni
È bene precisare che la sentenza citata non comporta un’autorizzazione indiscriminata ad effettuare collegamenti cliccabili verso siti web di terzi. Poiché la libera manifestazione del pensiero trova il limite nel rispetto dei diritti altrui (diritto d’autore, marchi, design ed altre privative di diritto industriale), nella leale concorrenza e nella correttezza nello svolgimento delle attività economiche.
Quello che emerge dalla sintetica e, necessariamente, non completa esposizione del panorama normativo e giurisprudenziale ora brevemente tratteggiato è che la continua evoluzione della giurisprudenza in materia impone agli operatori economici la massima attenzione nell’utilizzo di internet (o di altre forme di comunicazione digitale) per la promozione e commercializzazione dei loro prodotti nonché un costante monitoraggio di tale “ambiente virtuale” per impedire l’uso illecito che soggetti terzi potrebbero fare dei marchi, segni distintivi o di altri contenuti di titolarità dell’azienda.
Andrea Antognini e Emilio Paolo Villano