10 gennaio 2013

Pmi e internazionalizzazione: binomio possibile?

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Secondo alcuni, la dimensione ridotta, la scarsa managerialità, la proprietà familiare e la presenza prevalente in settori maturi, impediscono un efficace sviluppo oltreconfine delle Piccole e medie imprese.

Questa visione va, almeno parzialmente, smentita, per superare i luoghi comuni sostenuti da chi giudica le PMI senza conoscerle approfonditamente e per introdurre un nuovo approccio in grado di favorire la loro presenza sui mercati esteri.

Molte piccole imprese italiane hanno capito da tempo l’importanza di aprirsi all’estero e hanno saputo raccogliere la sfida. Queste aziende, oggi, nonostante il crollo della domanda interna, riescono a distinguersi con performance economiche sopra la media. È da queste realtà che si deve imparare, dall’osservazione dei loro comportamenti strategici e organizzativi che possono essere replicati anche in altre situazioni.

Rafforzarsi in Italia per conquistare l’estero

Una prima considerazione che l’osservazione di molti casi eccellenti consente di fare, riguarda proprio la relazione tra internazionalizzazione e performance.

Sembra di poter affermare che, se una piccola impresa è forte in Italia, ha maggiori chance di conquistare anche i mercati esteri. Le aziende internazionalizzate mostrano risultati migliori di chi si è limitato al mercato domestico e dunque appiano più solide, più competitive ma, nella maggioranza dei casi, lo erano già prima di avviare la loro espansione all’estero, processo che è stato possibile proprio grazie alle risorse accumulate in precedenza.

Essere forti porta con più facilità all’internazionalizzazione e non viceversa, a causa delle risorse, degli investimenti e dei costi fissi necessari per farsi conoscere all’estero. Se si condivide questo passaggio conviene dunque puntare, prima di tutto, a un rafforzamento interno all’impresa in termini strategici.

Interventi estemporanei solo sul fronte esterno, per esempio le missioni all’estero attraverso sussidi di istituzioni pubbliche, in assenza di una certa solidità interna difficilmente portano ricadute sostanziali.

Questa forza, alla base del processo di internazionalizzazione, non sembra correlata al tipo di settore o mercato scelto per competere. Si trovano imprese con ottimi risultati sui mercati internazionali, pressoché in ogni comparto merceologico, da quelli considerati maturi a quelli più evoluti.

Orientarsi al lungo termine

Un primo elemento ricorrente è quello di essere imprese guidate secondo una prospettiva di massimizzazione del profitto nel medio-lungo termine. Ciò significa che gran parte delle decisioni rilevanti, inclusa quella di esplorare i mercati esteri, sono prese secondo un orizzonte di lungo periodo, con la capacità di sopportare ritorni non immediati.

Le fiere internazionali, le attività di comunicazione, l’inserimento di personale dedicato all’export sono portate avanti con costanza e vagliate non solo nel breve periodo.

Confrontarsi con “i migliori”

Una seconda caratteristica importante è l’attitudine a confrontarsi con chi è più avanti, anche se geograficamente lontano, ovvero con chi ha saputo proporre soluzioni creative a problemi emergenti, con chi ha messo a punto prodotti, servizi, strutture e meccanismi innovativi e con chi ha affermato logiche e modalità di pensiero non ripetitive.

Le imprese “forti” appaiono come “imprese-spugna”, che assorbono e metabolizzano quanto l’ambiente loro circostante propone. Confrontarsi con chi è più bravo, sia pure limitatamente a singole aree dell’agire aziendale, amplia le opportunità di crescita perché permette di visualizzare un più alto livello di operatività già realizzato e dunque imitabile e, in alcuni casi, anche migliorabile.

Specializzarsi e non diversificare

Una terza peculiarità riguarda la scelta strategica di specializzarsi in un prodotto e/o in un servizio piuttosto che inseguire la diversificazione per poi darsi l’obiettivo di operare, eventualmente, anche su scala globale.

Cambiare completamente la propria combinazione strategica perché ritenuta, anche a ragione, in crisi per inseguirne altre più alla moda significa snaturare una consuetudine tipica, in particolare, delle piccole e medie imprese: l’imprenditore non è uomo per tutte le stagioni, profilo che più si avvicina alle caratteristiche di chi si muove secondo la prospettiva del finanziere, e dunque lega il proprio business a fattori molto specifici, spesso casuali.

Le mansioni svolte e il settore dell’azienda in cui ha operato da dipendente prima di rischiare in proprio, il crescere all’interno di una famiglia proprietaria di un’impresa presente in un certo comparto, le specializzazioni del distretto territoriale in cui è nato e cresciuto, la formazione professionale acquisita ed altre circostanze tipiche della vita di ciascuno sono fatti che indirizzano l’esperienza dell’imprenditore, come quella di chiunque altro, e che orientano il suo fare impresa.

Pensare di poter cambiare con facilità e con successo di risultati la predisposizione che nasce da questo accumulo di esperienza pregressa è molto meno logico che applicarsi con maggiore creatività per migliorare la combinazione strategica originaria recuperando l’efficienza e l’efficacia eventualmente persa per causa propria o, più probabilmente, per maggior dinamismo altrui.

Fare innovazione

Una quarta caratteristica, riconosciuta come fondamentale per rafforzarsi e poi penetrare nuovi mercati, è la capacità di fare innovazione anche operando in settori considerati maturi e tradizionali.

L’impresa forte mostra di continuo quest’abilità di rinnovamento e riesce a cogliere opportunità sorprendenti in ambiti dove apparentemente tutto sembra già scoperto. Il sistema competitivo è in continua evoluzione e sempre nuovi concorrenti possono presentarsi sul mercato, sia questo caratterizzato da prodotti di massa che da prodotti di nicchia.

Non ci si può fermare, vince chi cambia: gli eccellenti risultati economici conseguiti non rappresentano da soli una certezza di un domani altrettanto effervescente e pertanto non devono costituire una barriera a nuovi investimenti, ma devono essere il trampolino per la ricerca di nuove opportunità. Adagiarsi è un rischio e le aziende leader ne sono pienamente consapevoli.

Fare qualità nel piccolo

Infine, la spinta verso l’estero pare essere data dalla capacità di fare qualità nel piccolo e offrire servizi, piuttosto che ricercare efficienza attraverso la crescita dei volumi e l’abbattimento dei costi.

Questa seconda alternativa strategica, opposta alla prima, sembra, infatti, più coerente con la produzione di beni di massa e con le grandi dimensioni e dunque, nello scenario attuale, più facilmente attuabile nelle così dette economie emergenti.

In un contesto come quello italiano, l’unico posizionamento ancora sostenibile è quello della massima qualità, anche per intercettare più facilmente ciò che il resto del mondo si aspetta dal made in Italy.

Se la globalizzazione ha portato a uno spostamento degli assetti produttivi d’interi comparti merceologici nei paesi in via di sviluppo, con conseguenti e importanti perdite da parte delle economie occidentali, essa, attraverso la creazione d’ingente ricchezza, sta favorendo la nascita di nuovi consumatori.

Il calo della domanda interna non deve far pensare che il mondo sia in crisi, al contrario ci sono aree che registrano tassi di crescita mai sperimentati in precedenza, con l’emergere di milioni di potenziali clienti. Sono proprio costoro, i rappresentanti delle nuove elite di quegli stati, che si aspettano dalle produzioni italiane quell’eccellenza qualitativa nella manifattura, di rinascimentale tradizione, per cui siamo riconosciuti e apprezzati da molto tempo.

Marina Puricelli
Docente Bocconi e NIBI di Organizzazione Aziendale

 

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