Secondo i diretti interessati, la risposta è positiva, anche se non c’è stata una crescita esplosiva. L’industria manifatturiera americana è cresciuta dell’1,3% nel 2017: un buon risultato, se comparato agli ultimi anni, ma modesto rispetto ai primi anni 2000 (2.5 -3% di crescita annua).
Nel 2018 il protezionismo sta portando gli Stati Uniti verso una “guerra” dei dazi, soprattutto con la Cina, “guerra” i cui obiettivi, sviluppi, ed effetti appaiono incerti.
Qui riassumiamo alcuni aspetti delle politiche protezionistiche già avviate e delle questioni che stanno già interessando l’industria americana.
1) Tassazione
L’amministrazione Trump ha tagliato la “corporate tax” dal 39% al 21%, il tasso più basso dal 1939. Certamente, uno dei migliori incentivi per il settore manifatturiero americano. Tale taglio dovrebbe essere compensato con maggiori introti fiscali derivanti da maggiori investimenti privati sul suolo americano; ciò, tuttavia, non pare avvenire nelle dimensioni attese (sul c.d. “reshoring” vedasi infra, paragrafo 4). Il che pone un interrogativo sulla possibilità che detto trend di riduzione delle tasse (ed il conseguente vantaggio competitivo americano) sia mantenuto e che vengano anche realizzati gli attesi investimenti pubblici infrastrutturali promessi da Trump.
2) Deregulation
Effettivamente l’amministrazione Trump si è impegnata nella semplificazione burocratica soprattutto a beneficio delle medie e piccole imprese (ad esempio, riduzione degli adempimenti per la denuncia degli infortuni sul lavoro). Tuttavia, paradossalmente, la stessa amministrazione ha prodotto nuove norme protezionistiche sugli acquisti di prodotti made in US da parte delle amministrazioni pubbliche (c.d. BUY American); norme che, da una parte, agevolano le imprese domestiche, dall’altra, rappresentano un ostacolo per la maggior parte delle imprese americane che hanno delocalizzato. Inoltre, nuove normative più restrittive sull’immigrazione di lavoratori sono state osteggiate soprattutto dai settori più dinamici dell’industria americana.
Aggiungasi che la globalizzazione impone alle imprese, siano esse americane, europee o asiatiche, di considerare i rischi, i costi e le opportunità delle scelte normative su tutti i mercati di riferimento, oltre al mercato domestico. In questo senso, per le imprese esportatrici americane, la normativa privacy europea ha rappresentato una novità regolatoria di rilievo, dato che anche dette imprese devono adeguarvisi per vendere prodotti e servizi nell’UE. (Scopri di più)
3) Discriminazione e violenza sul lavoro
Prima del clamore suscitato dalle accuse contro il produttore holliwoodiano Weinstein (che hanno portato al fallimento della sua società cinematografica), i casi di discriminazione, molestia e violenza nei confronti delle donne lavoratrici costituivano una parte esigua di tutte le azioni giudiziali americane basate sulla discriminazione che, complessivamente, non arrivava a più del 2% del totale. E’ presto per valutare gli effetti del fenomeno, ma è prevedibile che aumenteranno i costi delle imprese americane per l’organizzazione ed il contenzioso del lavoro.
4) Reshoring
Alcuni fattori stanno incentivando il ritorno in America di produzioni delocalizzate, tra cui:
- le migliori condizioni economiche nazionali;
- lo sviluppo della tecnologia (automazione, robotica, Internet of Things)
- la riduzione dei costi dell’energia
- la riduzione nelle imposte sul reddito delle società (dal 39% al 21%)
- gli incentivi fiscali di alcuni stati americani
- l’aumento del costo del lavoro fuori dagli Stati Uniti
- la necessità di proteggere l’innovazione americana dalla contraffazione e violazione della proprietà intellettuale (in particolare, ad opera di subcontractor o competitor cinesi).
Inoltre, il movimento in favore del “reshoring” sostiene che, considerando tutti i costi (logistica, qualità, garanzie, ecc.), il TCO, “Total cost of ownership”, (costo complessivo) di un prodotto fatto in America non è eccessivamente più elevato di un prodotto cinese; in alcuni casi si tratta di una differenza del 10-12%. Se si ritornasse a produrre su suolo americano, i consumatori sarebbero disposti ad acquistare un prodotto “proudly made in USA” ad un prezzo leggermente più alto. (Scopri di più)
Benchè il “reshoring” si proponga di “riportare” lavoro in America e favorire la crescita economica e sociale della popolazione americana (in particolare, del ceto medio), non è ancora chiaro quanta occupazione sarà “recuperata” nell’industria manifatturiera a crescente automazione. Si tratterebbe soprattutto della creazione di posti di lavoro qualificati; lavoratori che già oggi le imprese americane farebbero fatica a trovare.
Peraltro, l’opposizione dell’industria americana dell’automobile all’annunciata revisione dell’Accordo di libero scambio (Nafta) con Messico e Canada sembra segnalare che tale grande settore manifatturiero non è al momento disponibile a rivedere le catene produttive spostandole negli Stati Uniti, a costi più elevati, sia per l’assunzione di personale americano sia per i dazi all’importazione di materiali e componentistica, non acquistabili in loco.
Non solo. Se si arrivasse alla guerra dei dazi tra Usa e Cina, gli esportatori americani temono che ne trarrebbero vantaggio i competitor, in primis quelli europei, favoriti dallo status privilegiato che la UE si troverebbe ad avere sia nelle relazioni con gli Stati Uniti, sia nei confronti di altri Paesi (in particolare, Canada, Giappone, Corea), tra cui la stessa Cina. (Scopri di più)
Il protezionismo e l’ostilità dell’amministrazione Trump agli accordi internazionali rischia, nel peggiore dei casi, di mettere a repentaglio le consolidate relazioni con l’UE, con ingenti danni economici anche per le imprese ed i consumatori americani.
In ogni caso, il revanscismo protezionista americano sembra al momento mettere in luce, più che l’egemonia di un Paese, le relative debolezze e contraddizioni di un sistema economico globale multi-polare.
Avv. Mariangela Balestra