L’elemento interessante è che il franchising può rappresentare sotto certi aspetti un business model funzionale a costituire la strategia cardine per proporsi su mercati importanti, ma nello stesso tempo estremamente ostili per quanto concerne il posizionamento diretto di brand e produzione.
In particolar modo è l’elemento con cui l’italianità del franchising si presenta sui mercati esteri, che sembra funzionale alla risposta di joint da parte di investitori orientali.
Il mondo del franchising italiano all’estero
Secondo i dati Confimpresa, il mondo del franchising italiano all’estero è composto principalmente da:
- ristorazione rapida con servizio bar caffè e asporto per circa il 20%,
- GDO e alimentari per il 13%
- seguiti poi da moda e abbigliamento circa 7%
- e infine ristorazione classica.
Nettamente in crescita sono altri esercizi in passato più "timidi" per questa modalità di penetrazione sui mercati esteri, come il settore dell’arredamento e design, che nel 2015 sembra soprattutto per i mercati orientali riservare importanti aspettative.
Cina
In ambito China per esempio, come ben sappiamo, l’elemento della storicità, per quanto concerne prodotto o servizi, sono sinonimi di qualità e prestigio nel riconoscimento di un brand e nella promozione del medesimo.
L’ultimo decennio ha rappresentato un momento importante per l’ acquisto da parte di operatori cinesi di brand italiani, (parlando del settore moda e design), semplicemente per ottenere un "nome" che richiamasse all’utenza cinese valori di prestigio e storicità oltre che internazionalità: la lezione oggi ci insegna che competenza accumulata da diversi anni da parte di imprese italiane con strumenti di business condiviso come quello in franchising, può rappresentare un elemento di altissima referenza per l’investor cinese, che saprà giocare la relazione di diretta appartenenza e vicinanza con il proprio franchisor.
E’ come se la buona fama 有名 you ming di un operatore, così come la storicità della sua efficienza commerciale, divenissero il biglietto da visita più importante per un posizionamento medio alto di prodotto con margini assolutamente più sostenuti rispetto ad altri mercati.
Una testimonianza di ciò l’abbiamo visto con Zara, celebre brand spagnolo che se percepito come cheap, suitable and easy in Italia, ha ottenuto però un indice di posizionamento completamente diverso in Cina e Giappone che ne hanno valorizzato elementi come: europeismo, qualità, stile, moda, glamour etc con un prezzo di posizionamento spesso più alto del 30% rispetto a quanto avvenuto in Italia.
Se poi ripensiamo alla "passione" cinese per l’emulazione di stili, immagini e prodotti in una modalità di replicazione più che di innovazione nel rispetto di un sentore e gusto comune tipico della cultura del regno di mezzo, possiamo ritrovare un elemento di spinta notevole, affinché il riproporsi di un brand di successo italiano sia percepito con assoluta gratificazione da parte del consumer.
Se fino a dieci anni fa il franchising fintamente italiano, (nomi italiani ma proprietà e produzione cinesi), soprattutto per quanto concerne moda ha rappresentato un comune denominatore sullo scenario del retail delle città cinesi di prima fascia, ora:
- il consolidamento di una società urbana con esperienza internazionale,
- maggior possibilità di spesa e attenzione alla qualità e provenienza
fanno sì che anche settori come alimentazione, moda e ristorazione presentino un legame concreto e reale con il Paese di provenienza e che questo sia un elemento di sostanza non solo un sounding di provenienza.
Questo permette all’operatore italiano posizionato su fascia alta di comunicare e consolidare una strategia di esclusività, legata al concetto di originalità che piace veramente alla classe cinese dei nuovi arricchiti.
Giappone
In Giappone sostenere una strategia di franchising 100% Made in Italy rafforza la posizione del partner giapponese ma, nello stesso tempo, permette di attirare l’attenzione di investitori tecnicamente non preparati per avventurarsi in un business non vicino alle loro "competenze imprenditoriali".
I giapponesi da sempre sensibili e attenti alla cultura del fare impresa all’italiana (sono molteplici i saggi e articoli editi da consulenti e giornalisti giapponesi per i proprio connazionali che discutono di elementi come qualità, creatività, corporate governance e sviluppo all’interno delle PMI italiane) sono difficilmente degli avventurieri sprovveduti nel mondo del business: coloro che avviano una loro attività, anche se vicina al mondo dell’italianità (penso alla ristorazione per esempio), prima di farlo seguono periodi preparatori estremamente lunghi nel nostro Paese, e non solo nel caso in cui essi vogliano lavorare come cuochi.
Il franchising made in Italy si differenzia da quello di larga dimensione americano, per esempio per:
- un’attenta personalizzazione del servizio
- e un forte adattamento del concept commerciale a misura di piccolo e medio investitore.
Ricordiamo che anche in Giappone il tessuto delle 中小企業, ovvero PMI, è estremamente radicato e, se anche una riforma del diritto societario giapponese ha teso a valorizzarne la qualifica generale in Spa, di fatto la prospettiva di corporate governance in stile piccolo medio rimane un elemento di sostanza. Questa prospettiva realizza in una modalità intima e rassicurante il bisogno di investimento dell’utente giapponese nei termini di conoscenza reciproca, ma anche e soprattutto del content commerciale sostenuto nella joint, costruzione di un rapporto umano e di fiducia, possibilità di intervento condiviso e modulabile.
Tra l’altro nel mondo dei consumer giapponesi ormai è diffusa la percezione della non totale autenticità di attività commerciali che, pur essendo di vero e proprio sounding italiano, difficilmente rispecchiano per tutta una serie di motivazioni di inerenza gestionale dell’attività, la tipicità del negozio o dell’esercizio commerciale conosciuto e apprezzato in Italia. Questo, se meno vero un ventennio fa, ora è una percezione ben radicata, figlia dell’epoca globale, che potrebbe trovare compensazione da una strategia di ampliamento commerciale coordinato da un franchising 100% made in Italy.
Corea
In Corea il sistema corporate delle jaibol difficilmente permette un dinamismo imprenditoriale alla giapponese per il tessuto PMI, o meglio, lo realizza direttamente in una struttura perfettamente gerarchica e monolitica delle relazioni fornitura e vendita con i partner di grande scala. Questo rende molto difficile l’interferenza commerciale di un franchising diretto a supporto di piccoli investitori: va segnalato tuttavia che in Seoul la prospettiva, soprattutto per quanto concerne il sistema del retail, sta cambiando, lasciando margini anche per operatori più piccoli di avviare all’interno dei mall di proprietà di Hyundai o LG o Samsung alcuni corner shop costruiti con il partner estero.
La relazione di distribuzione diretta lascia pian piano spazio, nei casi di successo, al franchising che viene però gestito dalla corporate "sovrana": ecco allora che i casi di attenzione ricevono lentamente, ma con sostanza, una forte spinta nella costituzione diffusa di punti vendita con copertura sostenuta sia in termini geografici che nei volumi di esercizio. Il trattato sulla liberalizzazione degli scambi commerciali fra Europa e Corea, siglato negli ultimi anni, ha poi portato all’abbattimento di molti dazi sull’esportazione di prodotti dall’UE e ha in qualche modo avvalorato le prospettive di joint-commerciale a livello bilaterale con questo mercato.
L’interconnessione commerciale e promozionale fra Giappone e Corea è poi un elemento di forza notevole per la pianificazione di una strategia in funzione del franchising. Un brand ben posizionato in Tokyo troverà a distanza di qualche anno sicuro interesse anche da parte di investors di Seoul. Il segreto sta principalmente nel valutare un posizionamento forte con un partner che abbia la capacità di sostenere una promozione "internazionale" all’interno del frame asiatico. Paradossalmente spesso può essere più auto-referenziale partire da Giappone con il suo "appeal" turistico nei confronti di coreani e cinesi, che gettare ogni risorsa su una missione di joint in Cina dove alla rapidità del consolidamento di un potenziale contatto commerciale interessato segue poi una difficoltà nel rendere quel brand italiano in Asia qualcosa di "non solo cinese".
Conclusioni
In un decennio il numero dei punti vendita a marchio Italia nel mondo sono triplicati, grazie allo sviluppo delle strategie di internazionalizzazione. Gli scenari inoltre evidenziano che alcuni processi di consolidamento di FTA, fra cui TTIP con USA e TPP in Asia e Pacifico, stanno in qualche modo valorizzando maggiormente le opportunità per il settore del franchising e influenzano notevolmente le strategie di internazionalizzazione, che devono accompagnare la promozione e riposizionamento del business italiano nel mondo.
Perché questo sia possibile è necessario una gestione della strategia e del posizionamento che sia condotta in prospettiva ben determinata per il mercato di destinazione, alimentando elementi di:
- riqualificazione
- e adattamento esclusivo
in luogo dei fattori di replicazione standard e anonima nella conduzione della relazione di franchising. Questo soprattutto laddove cultura, ma anche immaginario comune, influenzano consumo e word of mouth nel marketing così come, parlando di Cina, vastità di mercato poi richiami anche a controllo e costruzione della relazione ai fini di garanzia del business, che spesso sono ottenibili solo grazie a una gestione specifica del posizionamento intercorso su quell’area.
Paolo Cacciato - Coordinatore del Business Focus Cina e Far East NIBI