Le forze armate, istituzione solida e punto di riferimento per la popolazione, si sono proposte come garanti della transizione politica, appoggiando le pacifiche manifestazioni popolari. Il 26 marzo scorso, il capo di Stato maggiore, generale Salah, appellandosi all’art. 102 della Costituzione – che prevede la rimozione dall’incarico di presidente per impedimento fisico all’esercizio delle proprie funzioni – ha annunciato la destituzione di Bouteflika. Il generale non è stato però l’unica figura legata all’establishment ad “abbandonare” l’anziano presidente, ma ha goduto dell’appoggio di una parte dello stesso partito di Bouteflika – il Fronte di Liberazione Nazionale. L’ormai ex presidente non ha potuto far altro che rassegnare le dimissioni (il 2 aprile scorso), ma questo non ha placato la popolazione, che, ciascun venerdì, si sta riversando in massa nelle strade delle principali città (con punte di partecipazione anche superiori alle 10 milioni di persone, pari al 25% della popolazione), chiedendo l’uscita di scena dell’intero apparato politico (“le pouvoir”). Alcuni osservatori l’hanno definita una primavera araba “in ritardo”, ma a differenza delle agitazioni del 2010-11, da un lato, la loro origine ha una natura più “politica” (e non è frutto di rivendicazioni economiche, come allora), dall’altro, si sono mantenute pacifiche. Pacifiche, almeno fino a venerdì 12 aprile, quando la piazza ha espresso il suo forte dissenso contro l’instaurazione di un governo ad interim presieduto da Abdelkader Bensalah, presidente del Senato dal 2002. Per la prima volta si sono registrati scontri con la polizia, che hanno portato arresti e feriti, con Bensalah spinto ad annunciare nuove elezioni per il 4 luglio prossimo. Un ricambio politico generale appare difficile in assenza di un’opposizione coesa e di leader che siano realmente alternativi e distanti dalla compagine politica che finora ha governato il Paese. L’atteggiamento dell’esercito sarà fondamentale per capire quali scenari avrà davanti a sé l’Algeria, quest’ultimo un importante partner commerciale dell’Italia sull’altra sponda del Mediterraneo (Figura 1). Se da un lato le forze armate godono di ampio rispetto dalla popolazione, dall’altro, vi sono figure di spicco al suo interno che rientrano a pieno titolo nell’entourage dell’ex presidente Bouteflika. Ad ogni modo, l’applicazione dell’art. 102, la strategia di non intervento contro i manifestanti e la destituzione di Athmane Tartag dal vertice dei servizi segreti – che ora ricadono sotto la sfera di comando del Ministero della Difesa – sono mosse che denotano il tentativo di non danneggiare la reputazione del corpo.
Lo scenario che, ad oggi, appare più plausibile è una transizione democratica gestita dai militari, ma la situazione di estrema incertezza rende difficile attribuire a esso una probabilità di accadimento. Tuttavia, nel caso in cui le proteste dovessero inasprirsi, non si può escludere un intervento armato dell’esercito volto a ristabilire l’ordine pubblico. È da scartare invece l’ipotesi che
vengano adottate misure economiche di “ristoro” – come avvenuto nel 2011 al fine di scongiurare una primavera araba nel Paese – poiché interventi di questo tipo sarebbero, verosimilmente, inefficaci, dal momento che, come ricordato, le proteste affondano le proprie radici nel malcontento nei confronti della classe politica. Peraltro, il calo del prezzo degli idrocarburi degli ultimi anni ha avuto un impatto sui conti pubblici: la spesa pubblica e il deficit fiscale sono cresciuti e il Paese ha esaurito le risorse del proprio fondo sovrano (Oil Stabilization Fund). Quel che è certo è che l’Algeria, oil exporter membro dell’Opec e tra i principali fornitori di gas dei Paesi europei, necessita di un governo nel pieno dei poteri, che miri a una maggiore diversificazione dell’economia (le riserve di gas e petrolio saranno infatti sufficienti ancora “soltanto” per due generazioni) e a una maggiore apertura commerciale e agli investimenti esteri. Quella algerina è infatti un’economia “chiusa”, con una forte protezione dell’industria interna, specie in alcuni settori, nei quali, in passato, vi era addirittura divieto all’importazione per centinaia di prodotti, e oggi, gli stessi, sono sottoposti a dazi che variano dal 30% al 200%. Tale chiusura, se non altro, riduce la possibilità che un’eventuale crisi interna, possa avere un “effetto contagio” significativo su altre economie. Nonostante quella algerina, verosimilmente, non sarà una nuova primavera araba,l’incertezza dello scenario impone a esportatori e investitori nel Paese un attento monitoraggio dell’evoluzione degli eventi.
Giovanni Salinaro